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⓵ Il disturbo borderline di personalità
Il Disturbo Borderline è un Disturbo della Personalità caratterizzato da instabilità nelle relazioni interpersonali, nell’immagine di sé e nelle relazioni affettive, e da impulsività elevata. Il 2% della popolazione, il 10% dei pazienti in psicoterapia e il 20% dei pazienti ricoverati sono affetti da Disturbo Borderline di Personalità. Una percentuale dal 30% al 60% dei pazienti con Disturbo della Personalità è affetta da Disturbo Borderline: ciò lo rende il Disturbo di Personalità maggiormente diffuso.
LA DIAGNOSI DEL DISTURBO DI PERSONALITA’ BORDERLINE
Il manuale dei disturbi mentali (DSM-IV, APA, 1994) definisce i tratti di personalità come “modi costanti di percepire, rapportarsi e pensare nei confronti dell’ambiente e di se stessi”. Questi tratti, normalmente flessibili e adattabili, in soggetti affetti da Disturbo di Personalità sono caratterizzati da rigidità e difficoltà di adattamento a contesti diversi.
Lo strumento diagnostico più affidabile per la valutazione dei tratti della personalità, e della loro possibile variante patologica, è indubbiamente l’intervista diagnostica SCID-II (Structured Clinical Interwiew For DSM-IV Axis II). Questa intervista semi-strutturata, che si basa direttamente sui criteri del DSM-IV, si sviluppa attraverso uno o più colloqui clinici approfonditi, con valutatore esperto (per una durata massima di 2 – 3 ore), atti a valutare l’eventuale presenza di un disturbo della personalità, o anche solo di alcuni tratti di personalità patologici. Questo procedimento diagnostico viene definito categoriale, comportando come prodotto finale l’inserimento, o il non inserimento, del paziente in una categoria diagnostica (ad es. il Disturbo Borderline).
Westen e Shedler hanno cercato di risolvere alcune criticità della SCID-II creando uno strumento denominato SWAP-200 (Shedler Westen Assessment Procedure). La diagnosi in questo caso avviene attraverso la compilazione 200 descrittori da parte del clinico (non è richiesta la presenza del paziente), che deve comunque possedere una conoscenza approfondita, sia dello strumento, sia del paziente in oggetto (dovrebbe aver sostenuto almeno 3-4 colloqui clinici). Il test offre un risultato sia categoriale, sia dimensionale, rispetto alle categorie diagnostiche standard del DSM-IV, e alle categorie identificate dagli autori come significative, solo parzialmente sovrapponibili alle precedenti; ciò si traduce nella possibilità di osservare anche minime sfumature patologiche, così come potenziali risorse cui fare appello.
Esistono anche dei protocolli diagnostici specifici per il Disturbo Borderline di Personalità, ma la loro specificità potrebbe determinare una perdita di materiale importante rispetto ad altri disturbi “limitrofi”, quindi vengono utilizzati maggiormente in contesti dui ricerca, piuttosto che clinici. Più nel dettaglio, il Disturbo di Personalità Borderline è caratterizzato da instabilità delle relazioni interpersonali, instabilità dell’immagine di sé e degli affetti, e impulsività.
I pazienti con Disturbo Borderline spesso vivono nel timore dell’abbandono e compiono sforzi disperati per evitarlo: anche nel caso di separazioni di breve durata reagiscono con rabbia e disperazione.
Le relazioni con gli altri nel Disturbo Borderline sono instabili ed intense, caratterizzate da iniziale idealizzazione, che li induce a desiderare una vicinanza ed intimità totali e incondizionate anche con persone appena conosciute, ma che spesso si tramuta rapidamente in svalutazione di fronte alla sensazione che questi non si dedichino completamente a loro.
I soggetti Borderline attuano frequenti cambiamenti d’obiettivo, di valori, d’aspirazioni riguardanti carriera, identità sessuale, amicizie. Manifestano impulsività in differenti aree potenzialmente dannose per il sé: spese eccessive, sessualità, abuso di sostanze, guida spericolata, abbuffate alimentari.
Frequenti sono anche i comportamenti autolesivi, come il procurarsi volontariamente tagli e bruciature, e i tentativi di suicidio, che giungono a compimento nell’8-10% dei casi. I soggetti con Disturbo Borderline sembrano trarre sollievo dalle emozioni violente generate dai comportamenti autolesivi poiché ristabiliscono la capacità di provare sensazioni e di percepirsi come vivi e reali (utilizzando il dolore fisico come un’automedicazione, come un modo per annullare i sintomi dissociativi di derealizzazione e depersonalizzazione), ma vengono anche considerate come una giusta punizione per la propria inadeguatezza.
L’umore è spesso incontrollabile e passa rapidamente da tristezza, ad ansia, a irritabilità, a manifestazioni di rabbia intensa e inappropriata, espressa con frasi sarcastiche, esplosioni verbali o vere e proprie aggressioni. Queste reazioni violente vengono scatenate in particolar modo dalla sensazione di essere abbandonati e vengono seguite da sentimenti di vergogna e di colpa.
Talvolta pazienti con Disturbo Borderline si dichiarano afflitti da sentimenti cronici di vuoto, noia, necessità di intraprendere una qualsiasi attività, ma che non riescono ad incanalare verso una precisa direzione.
Durante periodi di intenso stress possono comparire aspetti bizzari (percepirsi come se osservassero dall’esterno il proprio corpo o i propri processi mentali)
TERAPIA DIALETTICO COMPORTAMENTALE
La difficoltà nella regolazione delle emozioni presentata dai pazienti con Disturbo di Personalità Borderline, e le spiccate tendenze impulsive e autolesive, sono state trattate con particolare efficacia da Marsha Linehan (1993), che ha elaborato una terapia specifica per il Disturbo Borderline, la Terapia Dialettico Comportamentale (Dialectical Behaviour Therapy – DBT).
Ad oggi la Terapia Dialettico Comportamentale è l’unica forma di psicoterapia formulata per il Disturbo Borderline che abbia dimostrato la propria efficacia grazie a diversi studi internazionali indipendenti.
Si tratta di un approccio terapeutico che unisce tecniche classiche della Psicoterapia Cognitivo Comportamentale (individuale e di gruppo), e strategie mediate da forme di meditazione orientale (vedi “Mindfulness”).
Questo approccio si basa sull’assunto per cui il paziente Borderline sarebbe caratterizzato da una vulnerabilità biologica riguardante gli stati emotivi, nei termini di una bassa soglia di stimolazione (intensa reattività, ad es. reagire con rabbia intensa ad uno stimolo poco rilevante per la maggioranza delle persone), ed una maggiore difficoltà a fare ritorno al tono emotivo di base (una volta scatenata la rabbia, invece di scemare gradualmente, continua a crescere sino a determinare comportamenti pericolosi per sé o per gli altri).
A tale vulnerabilità biologica Marsha Linehan ritiene necessario, perché possa determinarsi un disturbo conclamato, l’aggiungersi durante lo sviluppo di una serie di condizioni negative legate all’ambiente familiare, in particolare ciò che definisce invalidazioni emotive. Questo termine indica una difficoltà da parte delle figure genitoriali a riconoscere gli stati emotivi del bambino e rispondervi adeguatamente: in questo modo il soggetto, già a rischio a causa della suddetta vulnerabilità biologica, vede amplificarsi il proprio disagio a causa della mancata acquisizione di quegli strumenti adibiti al riconoscimento e alla gestione delle emozioni, che la maggior parte delle persone acquisiscono nell’infanzia.
I comportamenti impulsivi o autolesivi del paziente Borderline spesso servono a “disattivare” stati di attivazione emotiva intensi e dolorosi.
La Terapia Dialettico Comportamentale si basa su una doppia strutturazione del trattamento, individuale e di gruppo: nel trattamento individuale si lavora sui vissuti del paziente Borderline, si prescrivono dei “compiti” da eseguire durante la settimana, e si effettua una revisione di quelli precedentemente assegnati. Il terapeuta individuale, a differenza della maggior parte delle psicoterapie, offre anche supporto telefonico al paziente per le emergenze (situazioni a rischio di vita); nel trattamento di gruppo vengono insegnate strategie (skills training) in grado di permettere al paziente di adattarsi efficacemente a varie situazioni problematiche, imparando a gestire autonomamente emozioni, pensieri, relazioni interpersonali, stati di intensa sofferenza.
La pratica della Mindfulness riveste particolare importanza nella Terapia Dialettico Comportamentale. Praticare la Mindfulness significa acquisire “consapevolezza” dei propri pensieri, azioni e motivazioni prestando attenzione al momento presente, intenzionalmente e in modo non giudicante. E’ evidente come questi aspetti siano centrali nel trattamento del Disturbo Borderline
E’ molto importante valutare eventuali comorbilità nella valutazione diagnostica di pazienti con tendenze suicide. L’elevata comorbilità per il Disturbo Bipolare e il Disturbo di Personalità Borderline (BPD) in pazienti suicidari costituisce una sfida dal punto di vista diagnostico e terapeutico. Anche se il trattamento privilegiato per i pazienti con Disturbo Borderline è la psicoterapia, la terapia farmacologica è una componente fondamentale per il trattamento di patologie associate, come il Disturbo Bipolare. A causa dell’eterogeneità delle manifestazioni cliniche del Disturbo Borderline di Personalità, il trattamento farmacologico si è evoluto rispetto ad alcune dimensioni particolari del disturbo, piuttosto che al disturbo nella sua interezza. Le dimensioni individuate sono l’instabilità affettiva, l’aggressività impulsiva e il disturbo dell’identità. Il trattamento farmacologico di tali aspetti riduce la sofferenza globale del paziente e rende possibile l’intervento psicoterapeutico.
Il disturbo borderline di personalità è definito oggi come disturbo caratterizzato da vissuto emozionale eccessivo e variabile, e da instabilità riguardanti l’identità dell’individuo. Uno dei sintomi più tipici di questo disturbo è la paura dell’abbandono. I soggetti borderline soffrono di crolli della fiducia in sé stessi e dell’umore, tendono a cadere in comportamenti autodistruttivi e distruttivi delle loro relazioni interpersonali. Alcuni soggetti possono soffrire di momenti depressivi acuti anche estremamente brevi, ad esempio pochissime ore, ed alternare comportamenti normali.
Si osserva talvolta in questi pazienti la tendenza all’oscillazione del giudizio tra polarità opposte, un pensiero cioè in “bianco o nero”, oppure alla “separazione” cognitiva (“sentire” o credere che una cosa o una situazione si debba classificare solo tra possibilità opposte; ad esempio la classificazione “amico” o “nemico”, “amore” o “odio”, ecc.). Questa separazione non è pensata bensì è immediatamente percepita da una struttura di personalità che mantiene e amplifica certi meccanismi primitivi di difesa.
La caratteristica dei pazienti con disturbo borderline è, inoltre, una generale instabilità esistenziale. La loro vita è caratterizzata da relazioni affettive intense e turbolente che terminano bruscamente, e il disturbo ha spesso effetti molto gravi provocando “crolli” nella vita lavorativa e di relazione dell’individuo.
Il disturbo compare nell’adolescenza e concettualmente ha aspetti in comune con le comuni crisi di identità e di umore che caratterizzano il passaggio all’età adulta, ma avviene su una scala maggiore, estesa e prolungata determinando un funzionamento che interessa totalmente anche la personalità adulta dell’individuo.
Il disturbo di personalità borderline è un disturbo delle aree: affettivo, cognitivo e comportamentale. Le caratteristiche essenziali di questo disturbo sono una modalità pervasiva di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore e una marcata impulsività comparse nella prima età adulta e presenti in vari contesti, come indicato da cinque (o più) dei seguenti elementi:
- Sforzi disperati di evitare un reale o immaginario abbandono
- Un quadro di relazioni interpersonali instabili e intense, caratterizzate dall’alternanza tra gli estremi di iperidealizzazione e svalutazione
- Alterazione dell’identità: immagine di sé e percezione di sé marcatamente e persistentemente instabili
- Impulsività in almeno due aree che sono potenzialmente dannose per il soggetto (quali spendere, sesso, abuso di sostanze, guida spericolata, abbuffate)
- Ricorrenti minacce, gesti, comportamenti suicidari o comportamento automutilante
- Instabilità affettiva dovuta a una marcata reattività dell’umore (esempio episodica intensa disforia o irritabilità e ansia, che di solito durano poche ore e, soltanto più raramente più di pochi giorni)
- Sentimenti cronici di vuoto
- Rabbia immotivata e intensa o difficoltà a controllare la rabbia (esempio frequenti accessi di ira o rabbia costante o ricorrenti scontri fisici)
- Ideazione paranoide o gravi sintomi dissociativi transitori, legati allo stress
DIAGNOSI DIFFERENZIALE
- Disturbo depressivo maggiore (Disturbo depressivo)
- Distimia
- Disturbo bipolare
- Disturbo Post-Traumatico da Stress
- Disturbi dell’alimentazione
- Disturbo da abuso di sostanze psicoattive
- Disturbo somatoforme
- Disturbo narcisistico di personalità
- Disturbo antisociale di personalità
TRATTAMENTO
È indispensabile un trattamento psicoterapico, anche se è molto difficile portare a termine tale trattamento a causa dei frequenti abbandoni da parte del paziente. Tali trattamenti possono durare anni. Il livello dell’assistenza va dal trattamento ospedaliero al trattamento ambulatoriale. Possono essere adottate psicoterapie individuali, terapie cognitivo-comportamentali, terapie di gruppo interpersonale, terapie familiari.
È consigliabile un approccio integrato tra psicoterapia e farmacoterapia, quest’ultima a base di stabilizzatori dell’umore (al litio si preferisce il valproato) ad ansiolitici, se necessari, ed antidepressivi, i quali andranno sospesi al minimo sospetto dell’inizio di un periodo di mania.
Antidepressivi
Gli SSRI si sono dimostrati efficaci nell’alleviare l’ansia e la depressione, come la rabbia e l’ostilità, associati in alcuni pazienti affetti da questa patologia. Secondo alcuni ci vuole una dose maggiore di SSRI per trattare i disordini dell’umore associati al disturbo borderline di personalità ed è necessario un periodo maggiore affinché gli effetti benefici dei medicinali appaiano, piuttosto che nella depressione.
Antipsicotici
I nuovi antipsicotici atipici sono noti per avere degli effetti migliori di quelli tipici. Gli antipsicotici sono anche usati per trattare distorsioni del pensiero o false percezioni. L’uso degli antipsicotici è generalmente di breve termine.
Una meta-analisi su due test casuali controllati[senza fonte], quattro test non-controllati e otto casi, suggeriscono che parecchi antipsicotici atipici come la clozapina, l’olanzapina, la quetiapina e il risperidone, possono aiutare i pazienti affetti dal DBP con sintomi para-psicotici, impulsivi e intenti suicidari. Tuttavia, ci sono molti effetti collaterali attribuibili agli antipsicotici atipici, quali la discinesia tardiva, il forte aumento di peso corporeo e tutto ciò che ne consegue.
Bibliografia dell’articolo
- Otto F. Kernberg, Disturbi gravi della personalità, Torino, Bollati Boringhieri, 1987. ISBN 978-88-339-5410-3
- John Clarkin; Frank E. Yeomans; Otto F. Kernberg, Psicoterapia delle personalità borderline, Milano, Raffaello Cortina, 2000. ISBN 978-88-707-8647-7
- M. Ammaniti (a cura di), Manuale di psicopatologia dell’adolescenza, Milano, Raffaello Cortina, 2002. ISBN 978-88-707-8782-5
- Jean Bergeret, La personalità normale e patologica. Le strutture mentali, il carattere, i sintomi, Milano, Raffaello Cortina, 2002. ISBN 978-88-707-8770-2
- John Gunderson, La personalità borderline. Una guida clinica, Milano, Raffaello Cortina, 2003. ISBN 978-88-707-8796-2
- Marcinko D, Vuksan-Cusa B. 2009 Oct;47(10):815-22. Borderline personality disorder and bipolar disorder comorbidity in suicidal patients: diagnostic and therapeutic challenges.
Adattamento a cura di S.Rotondo
⓶ Mindful Therapy per bambini e ragazzi disattenti
Si sa, per raggiungere uno scopo è necessario uno sforzo!
Prendiamo lo studio, ad esempio: ogni studente sa che studiare richiede impegno e perseveranza. La sola passione non basta a preparare gli esami. Servono attenzione e pianificazione, ossia capire cosa fare, come farlo e distribuire lo studio nel tempo. Ma non è tutto: anche le emozioni giocano un ruolo fondamentale!
Ed è qui che entrano in gioco le funzioni esecutive, il “centro di comando” del cervello. Queste abilità ci aiutano a organizzare pensieri e azioni per raggiungere i nostri obiettivi.
Immagina di essere in un parcheggio con un amico e, mentre parli, ti accorgi di non ricordare dove hai parcheggiato l’auto. Non trovando le chiavi, salta subito la preoccupazione: “Le avrò lasciate in macchina? E ora?”. Ti sembra di ricordare che l’auto fosse vicino agli alberi, ma non la trovi. Osservi le auto e ti ricordi dell’app per accendere i fari e suonare il clacson. Sentendo il suono, ti avvicini, ma proprio in quel momento il telefono squilla e la tua attenzione viene catturata automaticamente.
Questo esempio mostra quanto siano importanti le funzioni esecutive per
- Organizzare e pianificare, come ricordare dove hai parcheggiato
- Rimanere concentrati, nonostante le distrazioni
- Gestire le emozioni, evitando di farti sopraffare
- Adattarsi al cambiamento, modificando il piano quando necessario.
La buona notizia? Le funzioni esecutive si possono allenare!
Come fare? La mindfulness si rivela una strada privilegiata per regolare attenzione ed emozioni. Questa pratica ci aiuta a sviluppare consapevolezza nel momento presente, senza giudicare ciò che proviamo o pensiamo.
La regolazione emotiva è uno dei maggiori benefici della mindfulness. Immagina di trovarti in una situazione di stress o rabbia: la mindfulness ti aiuta a riconoscere l’emozione senza reagire impulsivamente, creando uno spazio tra ciò che provi e come decidi di rispondere. Questo ti consente di adottare una risposta più calma e riflessiva, riducendo la possibilità di reazioni automatiche e disfunzionali. La mindfulness favorisce anche un decentramento sano dalle emozioni, il che è utile in situazioni di sovraccarico emotivo (come nel caso di rabbia o depressione) o quando cerchiamo di evitare le emozioni difficili (come accade nei disturbi d’ansia).
Per quanto riguarda l’attenzione, la mindfulness ci allena a riportare continuamente il focus sul presente ogni volta che la mente inizia a vagare. Questo processo migliora la concentrazione e riduce l’influenza di distrazioni esterne o pensieri intrusivi. L’allenamento dell’attenzione nella pratica della mindfulness coinvolge un ciclo costante di concentrazione, distrazione e riorientamento, che rafforza la nostra capacità di mantenere il focus sugli obiettivi.
Se senti che la tua attenzione fatica a restare concentrata o che le tue emozioni ti sovrastano spesso, la Mindful Therapy può essere la strada giusta per te. Grazie a pratiche di mindful play associate a strategie terapeutiche, riuscirai a sviluppare la consapevolezza necessaria per reagire in modo più equilibrato, consapevole e meno impulsivo agli stimoli esterni e alle emozioni interne. Come in un allenamento in palestra, dove il corpo diventa più forte con la pratica, la Mindful Therapy affinerà la tua mente, migliorando le tue capacità di regolazione emotiva e l’efficacia nell’affrontare la vita quotidiana.
(A cura di M. Minelli, 2025)
⓷ Coppie genitoriali & separazioni conflittuali
QUAL È’ IL COMPITO DELLO PSICOTERAPEUTA? Lo psicoterapeuta ha il compito di valutare la presenza di eventuali aspetti psicopatologici nel funzionamento interpersonale e relazionale dei genitori, le competenze genitoriali di ognuno di essi, le incidenze sullo sviluppo psicologico ed affettivo dei figli ed il soddisfacimento dei loro bisogni, allargando la valutazione a tutte le figure di riferimento significative ed indicando, altresì, le misure di intervento necessarie.
L’esperto, per rispondere ai quesiti, utilizzerà mezzi e strumenti attendibili, quali: il colloquio, per acquisire le informazioni necessarie relative al contesto relazionale e per effettuare una approfondita ricostruzione anamnestica; i test, reattivi psicodiagnostici che hanno lo scopo di individuare le modalità con cui il genitore si pone in rapporto con l’ex partner e con i minori coinvolti, e rilevare eventuali disfunzionalità personologiche e relazionali.
QUALI SONO LE COMPETENZE GENITORIALI SU CUI LAVORA LA TERAPIA? Le competenze genitoriali di base richieste a ciascuna parte, da mantenere al di là della separazione giudiziale, si basano su molteplici fattori, stabiliti dettagliatamente nel Protocollo di Milano (2012). Primariamente, il saper comprendere e rispondere adeguatamente alle esigenze primarie del figlio, come le cure igieniche, alimentari e sanitarie; preparare, organizzare e strutturare adeguatamente il mondo fisico del minore, ovvero gli aspetti ambientali, in modo da offrirgli un contesto di vita sufficientemente stimolante e protettivo; essere in grado di comprendere le necessità e gli stati emotivi del minore, di rispondere opportunamente ai suoi bisogni e di coinvolgerlo emotivamente negli scambi interpersonali, in modo adeguato alla sua età ed al suo livello di maturazione psico-affettiva; riuscire a favorire le congrue opportunità educative e di socializzazione; interpretare il proprio comportamento e quello altrui in termini di ipotetici stati mentali, cioè in relazione a pensieri, affetti, desideri, bisogni e intenzioni; offrire regole e norme di comportamento congrue alla fase evolutiva del figlio, creando le premesse per la sua autonomia; saper promuovere l’evoluzione della relazione genitoriale in virtù delle tappe di sviluppo del figlio, adeguandosi alle competenze acquisite e favorendo la crescita del minore; affrontare e gestire il conflitto con l’altro genitore – tenendo conto delle rispettive e peculiari strutture personologiche – con le dovute capacità di negoziazione; promuovere il ruolo dell’altro genitore favorendo la sua partecipazione alla vita del figlio – il cosiddetto criterio di accesso – in maniera attiva e nella salvaguardia della genitorialità, anche verso i legami generazionali e con la famiglia allargata; infine, qualora ritenuto necessario, l’esperto deve valutare altresì la disponibilità del genitore a sottoporsi a un percorso di sostegno alla genitorialità.
Una svolta significativa all’interno delle separazioni si ha con la Legge n. 54 dell’8 febbraio 2006, che sancisce il principio della bigenitorialità: il diritto imprescindibile di un figlio ad avere rapporti stabili con entrambi i genitori ed accesso ad entrambe le famiglie d’origine, ad eccezione di situazioni pregiudizievoli.
CHE COSA È L’ALIENAZIONE PARENTALE? Tra le situazioni conflittuali e problematiche più frequenti si trova infatti la cosiddetta Sindrome da Alienazione Parentale (PAS), ora nota come Alienazione Parentale (PA). Sindrome che si riferisce a tutte le manifestazioni psicopatologiche osservate nei minori triangolati all’interno delle separazioni genitoriali conflittuali, relative all’ingiustificato o inspiegabile totale rifiuto verso un genitore. Tale patologia è attualmente molto discussa: alcuni ne negano l’esistenza, altri la rivendicano come fenomeno in crescita, tanto che non è ancora stata inserita all’interno del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) (Bensussan, 2017). L’alienazione genitoriale, di cui la PA è un sottotipo, consiste nel distruggere la relazione tra l’altro genitore ed il proprio figlio. Nasce da conflittualità irrisolte e si alimenta con sentimenti di rivalsa ed acredine di un adulto verso l’ex partner, che cerca nel minore un alleato e, spesso, un vendicatore. Il movente – umiliazioni o tradimenti – provoca la nascita di un’alleanza perversa e patologica del bambino con un genitore a scapito dell’altro, non affidatario, che viene aggredito o escluso dalla relazione.
L’attore della PA, consapevolmente o inconsapevolmente, promuove il cosiddetto “child’s brainwashing”, attraverso strategie dirette ed indirette: può inculcare opinioni negative tramite minacce, promesse o premi; raccontare aneddoti in cui l’altro è connotato negativamente, perdente o ridicolo; manipolare le situazioni a proprio favore; porre il figlio nella posizione di giudice degli agiti scorretti dell’altro; drammatizzare gli eventi; minacciare un calo di affetto nei casi di riavvicinamento all’altro; attribuirsi qualità positive, scindendosi dall’altro; riscrivere il passato creando dubbi nel figlio sul rapporto con l’altro. Il genitore rifiutato può altresì essere sostituito con un nuovo partner. Il minore coinvolto vive diverse fasi con il trascorrere del tempo: inizialmente resistente, finisce con il cedere ed allinearsi, soprattutto se emotivamente fragile e meno difeso. Colludendo con il genitore idealizzato, nella maggior parte dei casi inizia a colpire il bersaglio rifiutando visite e contatti e muovendo accuse di violenze e maltrattamenti, in maniera caricaturale, cantilenosa, fittizia.
QUALI SONO LE CONSEGUENZE PSICOLOGICHE SUL MINORE? Nell’evoluzione normale del bambino, condizioni di ansia, timori, momenti depressivi sono sempre presenti, ma sono normalmente contenute, controllate e trasformate attraverso valide relazioni familiari. L’esplosione di un intenso stato di conflitto e la rottura del legame tra i genitori fanno invece riemergere nel bambino, in modo patologico, ansie arcaiche, timori di abbandono, angosce persecutorie e depressive, causate dalla mancanza di punti di riferimento chiari e rassicuranti, costringendolo a cercare a qualsiasi prezzo la garanzia e la certezza di riferimenti affettivi stabili.
L’elemento patologizzante non è la separazione in sé, ma il tipo e la qualità di relazione che, da sempre presente nella storia di queste coppie, si slatentizza nel suo potenziale perverso durante e a separazione avvenuta.
In termini psicologico-relazionali si tratta di processi che iniziano molto prima che ci sia la notifica da parte dell’ufficiale giudiziario e che terminano molto dopo che la causa di separazione sia effettivamente definita a livello legale.
Nelle separazioni conflittuali, i bambini sono oggettivamente a rischio di danno evolutivo perché sono strumentalizzati ai fini della separazione dei genitori e della richiesta di risarcimento, economico e psicologico, che ne deriva. Queste coppie tendono ad attuare una sorta di “sindrome da indennizzo” ed utilizzano tutto quello che può essere messo in atto, compresi i bambini, per l’illusione della vittoria.
COSA VIVE IL MINORE? La separazione e la conflittualità attivano nel bambino molteplici vissuti e fantasie. Egli: tende a colpevolizzarsi per la separazione dei genitori; continua a fantasticare la loro riunificazione, anche molto tempo dopo la ricostituzione di nuovi legami affettivi dei genitori con un nuovo compagno/a; resta idealmente legato alla precedente struttura familiare, che determina distorsioni cognitive della reale situazione; vissuti e fantasie ulteriormente aggravati dalle triangolazioni e dai tentativi di manipolazione effettuati dai genitori e/o dai parenti, che tendono a spingere i bambini da una parte o dall’altra, del conflitto genitoriale.
Ripetutamente questi bambini ripetono “voglio che mamma e papà restino insieme” a cui si da loro una risposta concreta di avere un desiderio incongruo, mentre si perde di vista il valore simbolico della richiesta: in realtà non interessa tanto che mamma e papà proseguano a giocare insieme ,ma implicitamente chiede “fai in modo che restino uniti … dentro di me”. Questi genitori sono informati ripetutamente che il loro comportamento porterà danni psicologici gravi al bambino, ma nonostante questo rischio perseverano nei loro comportamenti pur di soddisfare il rancore e la rabbia verso l’ex partner..
È frequente che nel passaggio da un genitore all’altro, quando deve separarsi da un genitore, o quando torna a casa, dopo la frequentazione dell’altro genitore il bambino manifesti sofferenza o veri e propri sintomi. Questi possono essere riletti in modo distorto, ad esempio possono essere considerati un segnale che il bambino vuole rimanere con il genitore da cui si distacca o come la chiara dimostrazione che il figlio non vuole andare dall’altro genitore; ma il disagio può anche essere letto come il segno di quanto sia nociva la frequentazione dell’altro genitore. In questi casi i genitori non si rendono conto che il disagio e i sintomi del bambino esprimono i sentimenti penosi che questi sperimenta quando, trovandosi al centro del conflitto dei genitori, si sente devastato dal senso di colpa di star bene con un genitore e dal timore che questo suo affetto e attaccamento offenda l’altro genitore. I sintomi del figlio possono essere utilizzati per dimostrare quanto sia dannoso mantenere il rapporto con l’altro genitore, o per ridurre quanto più possibile gli incontri con il genitore non affidatario, facendo in modo che gli incontri siano impediti o non siano soddisfacenti per il bambino
QUALI SONO I CONFINI DEI COMPONENTI DELLA RETE (LEGALI, CLINICI, ECC)? Purtroppo anche l’iter processuale, necessariamente, basato sulla scissione: competente/incompetente, colpevole/innocente, ecc., rispecchia il funzionamento scisso della coppia a relazionarsi in termini di giusto/ingiusto, bravo/inefficiente, vittima/carnefice, preferito ad un percorso clinico o mediativo basato sulla integrazione. Spesso il funzionamento dell’iter legale inasprisce il conflitto, innescando una escalation, in cui entrambi i genitori hanno come obiettivo di perseguire una soddisfazione pulsionale e perversa, una sorta di ricerca di una soddisfazione erotica, a volte ammantata dalla illusione di fare il bene del figlio attraverso il raggiungimento della vittoria legale, piuttosto che aiutarlo in termini medici e psicologici. La contesa legale è preferita ad un intervento clinico per i figli perché un intervento terapeutico che porti a un cambiamento del figlio li costringerebbe a rinunciare al suo uso e al suo possesso, e li solleciterebbe a guardarsi dentro e a chiedersi cosa sottendono certe ostinate iniziative fatte in nome del bene dei figli.
La maggior parte dei fallimenti matrimoniali potrebbe essere agevolmente gestita in termini clinico-terapeutici e di mediazione familiare, dove il loro conflitto andrebbe riletto come sintomo o in termini di disagio psichico, disinvestendo le energie emotive ed economiche dalla battaglia legale, utilizzandole per gestire la separazione con un supporto clinico, in modo da non danneggiare i figli e la qualità della propria vita.
Ma ciò difficilmente perseguibile perché comporta l’atto sacrificale di rinunciare alla soddisfazione pulsionale, toccare una sana depressione in cui è possibile riconoscere in se stessi anche negativi oltre ai positivi fortemente enfatizzati, e nell’ex coniuge aspetti positivi insieme a quelli negativi sempre evidenziati, e riconoscere che anche l’altro può essere per i figli una risorsa malgrado le sue fragilità e carenze; in terapie ben riuscite, è emozionante vedere come una accanita conflittualità si trasformi in solidarietà in cui uno dei genitori supporta la fragilità dell’altro, un tempo usata per dimostrarne l’incompetenza, offrendo al figlio una genitorialità integrata e non più scissa.
Il principale stress è subìto l’anno successivo alla separazione che è quello più emotivamente impegnativo ma questi minori che riescono a stare nella sofferenza non tutti poi rifiutano la frequentazione di un genitore, come nella cosiddetta PAS, che palesano il rifiuto di un genitore apparentemente al momento della separazione ma portano una antica vulnerabilità di base che li espone a fare il sintomo.
Quando operano contemporaneamente più servizi-istituzione-professionisti,si enfatizza il “lavoro di rete” che dovrebbe lavorare in modo integrato,a volte inteso come trasmissione di informazioni e reciproca collaborazione,ma talvolta questa “integrazione” ha dei rischi e la principale minaccia è la ripetizione all’interno dei servizi dei “giochi” relazionali patogeni delle famiglie, come conflittualità tra professionalità diverse; col rischio di incarnare e agire i meccanismi patologici (interpersonali e intrapsichici) veicolati dalle componenti patologiche dell’utente. Si rischia di ripetere il funzionamento scisso attraverso interventi contraddittori, non coordinati e unilaterali che privilegiano il tema sociale o giudiziario o clinico o la sofferenza emotiva:se si privilegia solo una parte quella trascurata o mantenuta scissa farà fallire l’intervento. Una rilettura del concetto di “integrazione” potrebbe essere non tanto sapere tutto di tutti o sperare che altri facciano ciò che non si riesce a fare, ma avere una chiarezza su chi fa che, rispettandone obiettivi, competenze e confini, tollerando le carenze e fragilità.
Si propone un esempio tratto dalla nostra casistica: “Il team curante in doppio legame: il servizio affidatario e il magistrato hanno necessità d’informazioni che chiedono/pretendono dal team curante per assumere delle decisioni e chiedono ai terapeuti informazioni sull’andamento della terapia, sui contenuti emersi, nonché indicazioni; i terapeuti, cosi, son posti in un doppio legame: se rispondono alle necessità dei servizi e del magistrato vengono meno alla alleanza terapeutica che poggio sulla garanzia della riservatezza e cosi la terapia fallisce, se restano fedeli al contratto terapeutico che poggia sulla riservatezza per non far fallire il processo terapeutico viene riletta come non collaborazione o come una sorta di aristocrazia terapeutica.-Dalla triangolazione dl minore alla triangolazione dei genitoriIn alcuni casi, ha orientato, servizi e magistrato, a non riporre più fiducia nel team curante, e ad affidare il caso ad un altro gruppo più aderente alle loro necessità; si ripropone così, anche nella “rete” il funzionamento patologico degli utenti: cosi come i genitori triangolavano il figlio, così i genitori vengono triangolati dalle necessità dei servizi e scissi tra un team compiacente e un team riservato.”
A differenza di altri professionisti, il clinico-terapeuta non ha il compito di accertare la “verità”, ma deve invece lavorare nel dubbio, nell’incertezza, nella complessità della natura umana, compresa la propria.
Rendersi conto di queste fondamentali differenze tra l’intervento clinico e quello sociale-giudiziario, permette di evitare fraintendimenti, confusioni e sovrapposizioni, aiutando ciascun professionista a rimanere nel proprio ambito di competenze, che devono essere confrontate ma non omologate, per realizzare un intervento davvero multifocale e integrato, in cui sia centrale il riconoscere il diritto alla cura per prevenire che i minori oggi danneggiati siano gli adulti psicopatologici e domani danneggianti i propri figli .
La carenza di risorse economiche e professionali non può più giustificare la scelta di risolvere con interventi esclusivamente sociali e giudiziari un disagio che dovrebbe avere una risposta terapeutica.
QUALI SONO GLI OBIETTIVI DEL PROGETTO TERAPEUTICO? Ricostruzione della relazione con entrambi i genitori, con un trattamento della loro patologica relazione; lavoro sui genitori reali e sulle loro risorse per garantire ,per quanto possibile ,la relazione del minore con entrambe i genitori e spostare le loro energie dalla loro lotta ai bisogni di salute del figlio, attraverso un percorso di mediazione terapeutica dei genitori
Mantenere ,con qualunque strumento, la continuità del legame genitori-figlio, curando il ruolo di “sintomo” del figlio e garantire una vita di qualità.
A cura di S. Rotondo
⓸ Lo stress post traumatico nei bambini
I bambini elaborano informazioni ed esperienze in modo diverso rispetto agli adulti a causa della loro capacità di consapevolezza e di giudizio non sviluppati. La mancanza in un bambino della capacità di comprendere e rispondere agli eventi traumatici in modo appropriato può essere attribuita alle loro capacità cognitive ed emotive non ancora pienamente sviluppate (Levendosky, Huth-Bocks, Semel e Shapiro, 2002).
Il postulato centrale nel lavoro con i bambini è che le loro reazioni sono reazioni normali a eventi anormali. Un bambino può avere reazioni burrascose, subire cambiamenti e soffrire intensamente. Il modo e l’intensità con cui ciascun bambino reagisce all’evento traumatico dipendono da diversi fattori:
- prima di tutto dal livello di esposizione all’evento traumatico stesso (minaccia per la vita, lutti…)
- dalle caratteristiche preesistenti (temperamento del bambino, variabili psicologiche e familiari…)
- da come vengono gestite le conseguenze del trauma a livello familiare e sociale (se ne parla, vi è supporto/rete sociale, presenza di eventuali disturbi nei genitori ecc…) e che cosa mette in atto il bambino per fare fronte allo stress
Mai sottovalutare o ignorare, quindi, un evento traumatico, proprio perché studi scientifici hanno evidenziato che le reazioni dei bambini a eventi stressanti possono essere tutt’altro che transitorie e avere esiti altamente invalidanti, anche nei soggetti in età prescolare (Yule, 2001) e possono inoltre persistere a fronte di un funzionamento sociale apparentemente nella norma (Laor et al., 1997).
Nella nostra cultura abbiamo la tendenza a proteggere i bambini dal dolore e dalla sofferenza. E’ importante sottolineare che i bambini provano dolore nello stesso modo degli adulti quando vengono esposti a eventi gravi. Quindi, i bambini sono soggetti a provare stati di ansia ed emozioni come rabbia, colpa,tristezza, mancanza di speranza e senso di impotenza. La capacità dei bambini di provare questo tipo di dolore è in genere sottovalutata. Probabilmente questo è dovuto al fatto che si esprimono con modalità diverse da quelle degli adulti.
Quando si può parlare di DISTURBO POST-TRAUMATICO?
- Le risposte complesse al trauma si ripercuotono sulle relazioni, sul livello di funzionamento cognitivo e di sviluppo e sulla capacità individuale di essere coinvolti e partecipare alla propria vita;
- La forza dell’evento è maggiore rispetto alle risorse disponibili per una risposta e un recupero efficace.
Quali sono i SINTOMI?
- Ansia
- Irrequietezza
- Apatia e insonnia
- Inappetenza
- Distacco dalla realtà
- Facile distraibilità
- Labilità mnemonica
- Depressione
- Rabbia e aggressività
- Ritiro sociale
- Disturbi somatici (dermatiti, emicranie ecc. …)
Questi sintomi si manifestano entro il mese successivo all’evento traumatico ed oltre (anche dopo qualche anno)
COSA FARE?
- Dedicare il tempo e la tranquillità necessaria per parlare: ascoltare le domande del bambino e rispondere con sincerità , accettare e rispettare le emozioni (se non ci sono risposte, allora bisogna dirlo al bambino)
- Utilizzare il disegno ed il gioco per spiegare e farsi raccontare vissuti dal bambino
- Convalidare i vissuti emotivi del bambino (non banalizzarli o sminuirli)
- Rispettare le sue modalità di espressione delle emozioni (se il bambino ha voglia di piangere non limitarlo, ma accoglierlo e coccolarlo)
- Aiutare il bambino ad esprimere le emozioni
- Aiutare i bambini a modificare eventuali pensieri distorti o dannosi relativi al trauma (es “si rompe tutta l’Italia!”)
- Prestare attenzione ad eventuali bisogni che il bambino manifesta
- Accettare i comportamenti regressivi, come riprendere a farsi la pipì o la popò addosso: un bambino deve essere confortato senza alcuna pretesa, senza colpevolizzarlo né criticarlo o punirlo; si potrà tornare più avanti alle normali aspettative
- Rassicurarlo e farlo sentire protetto anche attraverso il conforto fisico che può far diminuire il livello di ansia
- Apprendere la pratica della “mindfulness” ed applicarla insieme con il bambino.
Il bambino può trarre grande beneficio da un ambiente di riferimento e dalla disponibilità di persone affettuose. Una condizione di vita sicura e protetta da stress aggiuntivi rappresenta un aiuto significativo.
(A cura di S. Rotondo 2012)
⓹ La mindfulness per sviluppare una maternità consapevole
La gravidanza, il parto e la maternità possono essere sia particolarmente stimolanti che incredibilmente gratificanti. I rapidi cambiamenti nel corpo, nello stile di vita, nelle relazioni, nel lavoro e nell’identità possono porre la futura mamma di fronte a una vera corsa ad ostacoli. La mindfulness in gravidanza permette di sviluppare un insieme di competenze che possono aiutare la futura mamma ad affrontare queste sfide. Vivere “una maternità consapevole” significa divenire consapevoli dell’esperienza momento per momento, connessi con il proprio bambino, per poi affrontare in modo efficace e funzionale al proprio benessere ciò che sta accadendo.
Scendendo nello specifico punto di vista scientifico, ci sono diversi studi sperimentali che hanno valutato l’efficacia della mindfulness in maternità, i cui risultati mostrano che la pratica di consapevolezza riduce le emozioni negative e l’ansia durante la gravidanza, riduce lo stress post-partum, riduce i sintomi della depressione post-partum e migliora la qualità di vita.
“Lo stress e l’umore negativo durante la gravidanza aumentano il rischio di parti difficili, pre-termine, problemi di umore postnatali nelle madri; possono inoltre interferire con l’attaccamento madre-bambino e con lo sviluppo del bambino. Tuttavia, poche ricerche si sono incentrate sull’efficacia degli interventi psicosociali per ridurre lo stress e l’umore negativo durante la gravidanza. Ricerche focalizzate sugli effetti della mindfulness in gravidanza suggeriscono che un intervento mindfulness-based fornito durante la gravidanza riduce gli effetti negativi dell’ansia e riduce la depressione, con l’effetto positivo sulla nascita e sullo sviluppo del bambino.” (C. Vieten, J. Astin, California Pacific Medical Center Research Institute, San Francisco, California, U.S.A.).
Spiegare nella pratica come la mindfulness opera tali effetti risulta un po’ complesso, poiché la mindfulness è una pratica esperienziale quindi agisce nel mentre viene praticata; in generale è utile comprenderne il meccanismo: la pratica di consapevolezza non diminuisce il dolore fisico del parto, ma modifica il modo di percepirlo e affrontarlo, sviluppando la consapevolezza mentale.
“Consapevolezza è osservare deliberatamente il tuo corpo e la tua mente, lasciando che le tue esperienze scorrano liberamente di momento in momento e accettandole così come sono. Mindfulness non significa rifiutare i pensieri o bloccarli o reprimerli. Non significa controllare alcunché, eccetto la direzione della tua attenzione” (John Kabat-Zinn, 1990).
Lo sviluppo della mindfulness produce cambiamenti nella mente. Questi cambiamenti si manifestano in modi specifici: crescita della tranquillità mentale. La distrazione provoca l’agitazione della mente. La mente che si libera dalla distrazione è capace di sperimentare livelli progressivi di tranquillità. La tranquillità sorge se vengono create le condizioni appropriate. Va da sé che se la mente è distratta dal dolore, sviluppando consapevolezza si può riuscire a sviluppare alcune abilità fondamentali come: le abilità di spostamento (switching), che permettono di spostare il focus da un oggetto all’altro, quindi di spostare l’attenzione dal dolore ad altre sensazioni e pensieri, es. “il dolore delle contrazioni è transitorio, arriverà presto l’espulsione e vedrò il mio bimbo nascere…”.
Una maggiore consapevolezza degli stimoli e delle risposte interrompe preventivamente il comportamento automatico: “Sento lo stimolo a spingere nonostante il dolore che mi fa gridare e abbandonare le forze… mi sposto sullo stimolo e spingo (fase di espulsione)…”.
Il “decentramento” è un’acquisizione importante nella pratica della mindfulness e ancora più importante quando si attraversa il dolore. La mindfulness implica l’osservazione dell’esperienza come se la si vedesse per la prima volta (“mente del principiante”), senza preconcetti, aspettative o desideri. Per questo è una pratica preziosa per la futura mamma e il futuro papà, che portano con sé aspettative e desideri che spesso portano a sviluppare ansie e stress tali da non viversi pienamente e serenamente la bellezza del divenire genitori.
In quanto pratica di meditazione, la mindfulness non ha controindicazioni. È importante comprendere che non deve essere pensata come una tecnica, ma piuttosto come un modo di essere. Si pratica per se stessa, e diviene uno stile di vita coltivato quotidianamente, indipendentemente dalle circostanze. Tuttavia, è necessario che l’apprendimento di tale pratica avvenga sotto la conduzione di insegnanti e trainer specificamente formati.
Bibliografia:
- Effects of a mindfulness-based intervention during pregnancy on prenatal stress and mood: Results of a pilot study. C. Vieten, J. Astin, California Pacific Medical Center Research Institute, San Francisco, California, U.S.A. (Published in the Arch Womens Ment Health (2008) 11: 67–74, DOI 10.1007/s00737-008-0214-3).
- Mindful Motherhood: Practical Tools for Staying Sane in Pregnancy and Your Child’s First Year. Cassandra Vieten, New Harbinger Publications, 27 May 2009.
A cura di S. Rotondo